La motivazione con la quale la Giuria Letteraria ha assegnato il premio a Zaccuri |
Il romanzo di Alessandro Zaccuri, Poco a me stesso, con eleganza e affabilità narrativa, sa celare nel fondo una rara complessità di saperi storici e letterari. È un romanzo storico ma anche qualcosa di più: un esercizio di virtuosa regressione al passato, nell’estate del luglio 1841, nella Milano di Giulia Beccaria, la charmante Julie, figlia di Teresa de Blasco, e di Cesare, il sommo giureconsulto dei Delitti e delle pene. Non ultima corona dei suoi allori, madre di Alessandro Manzoni. Nella storia, non nel romanzo. Il segreto, sempre alluso del libro, è proprio l’Alessandro figlio naturale di Giovanni Verri, sua l’ombra dominante, il respiro nascosto, il costante riflesso nella trama di parole, di accenti, di echi, di misteriose citazioni. L’altro tema sta nel binomio, pur sempre attuale, scienza/magia, e nel suo labile confine incarnato dalla figura di Franz Anton Mesmer (1734-1815), nato in una contrada tedesca, medico e filosofo del magnetismo, qui fatto rivivere in un presunto discepolo: l’avventuriero, charmant, dotatissimo di ogni maschera e infingimento, il sedicente barone Jean-Louis-Aurélien de Cerclefleury. Ma la sua finzione sarà decifrata (dal Cavaliere di Rivabella e da Giulio Beccaria) e l’inganno cadrà, mettendolo in fuga. Giulia, morendo, abbraccerà riconoscendolo in Tirinnanzi il figlio abbandonato alla nascita. E Manzoni? Non c’è, ma è come se ci fosse. I nuclei del romanzo sono più d’uno: il primo ruota dentro e intorno il salotto Beccaria, con tutto quello che significa come cultura, stile, tradizione, religione civica. L’altro è nella suburra milanese di Aristide Faggini. Un superbo ritratto d’epoca, un coltissimo divertissement, un dagherrotipo di parole, colori, atmosfere, scattato tra i palazzi patrizi e i Navigli plebei di una Milano amorosamente ricostruita a pennellate di stile. |